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Riflessioni sull'unità d'italia

Pubblicato da in Cultura · 27/06/2012 14.55.25

Le celebrazioni per festeggiare i primi 150 anni dell’unità italiana. La data a cui si fa riferimento è il 17 marzo 1861, quando, a Torino, si proclamò la nascita del Regno d’Italia.
Le relative elezioni si erano svolte il mese precedente. Su poco più di 21 milioni di abitanti (Piemonte 3.815.637, Lombardia 2.771647, Modena 609.139, Parma 508.734, Toscana, 1.779.333, Sardegna 573.115, Province romane adriatiche 1.937.184, Napoletano 6.843.355, Provincia di Benevento 23.176, Sicilia 2.231.020) i duosiciliani erano più di 9 milioni, circa la metà, quindi.
Gli aventi diritto al voto, secondo la legge piemontese, erano solo 418.850. i votanti effettivi furono appena 239.853, cioè meno dell’uno per cento di tutta la popolazione. Nei territori occupati del Regno delle Due Sicilie, circa la metà di tutto il nuovo Regno, gli aventi diritto al voto furono soltanto 129.700, i votanti 87 mila. Garibaldi, presentatosi nel collegio elettorale di Napoli, fu eletto con soli 39 voti.
Ciò che è fondamentale sottolineare è che, quelle elezioni si svolsero mentre a Gaeta, a Messina e a Civitella del Tronto sventolava ancora il vessillo duosiciliano. A Gaeta, in particolare, allora fortezza, era insediato il legittimo governo duosiciliano, rappresentato dal Re Francesco II, riconosciuto, ufficialmente, da tutti i governi d’Europa, fatta eccezione, ovviamente, da quello del Piemonte, le cui forze armate cingevano d’assedio quella fortezza,dopo avere invaso il territorio delle Due Sicilie senza dichiarazione di guerra, senza alcun casus belli, con relazioni diplomatiche ancora allacciate, come novelli barbari.
A quelle libere elezioni non parteciparono, ovviamente, i duosiciliani (più di dodicimila) che combattevano e resistevano, intrepidi, a Gaeta, a Messina, a Civitella del Tronto. Né, tantomeno, né ebbero la possibilità di votare le altre migliaia di duosiciliani imprigionati perché ribelli all’invasore piemontese. E non si venga a dire che c’era stato il plebiscito che, ufficialmente, aveva sancito l’annessione del Regno delle Due Sicilie a quello del Piemonte. Quel plebiscito era stato un farsa in piena regola: la votazione era palese, chi si azzardava a votare per il no era assalito e bastonato, votarono anche i garibaldini e i piemontesi, Garibaldi compreso, cioè tutti stranieri; non essendoci controlli, chi voleva poteva votare più volte, alla fine furono riempite le urne del sì con tutte le schede che erano rimaste, a piene mani. Il risultato, nel Napoletano, fu di 1.032064 sì e 10.313 no. La strategia piemontese per i plebisciti, già ampiamente collaudata a Modena, a Parma, in Toscana, in Sicilia ecc. prevedeva che ci fosse un certo numero di no, per salvare le apparenze di fronte all’opinione pubblica europea. Anche le schede per il no, erano, quindi, per la maggior parte, travasate nelle urne, a piene mani.
Pochi giorni prima che si insediasse il primo Parlamento italiano, nella fortezza di Gaeta, rimasta isolata dal resto del mondo dal 19 gennaio, a seguito della partenza della flotta francese che fino ad allora aveva garantito il libero accesso dal mare:
La mattina del 5 febbraio, le batterie del monte Tortano cominciarono a tuonare con grande vigore. Alle quattro del pomeriggio, un boato e una scossa violentissimi si estesero sull’intera Piazza. Fumo, fiamme, macerie, polvere spostata a molti metri di distanza, che annebbiava la vista. Era stato colpito il magazzino di munizioni della « Cortina a denti di sega Sant’Antonio ». Conteneva anche i proiettili della batteria Cittadella, oltre a circa 40.000 cartucce da carabina e fucile. Crollarono gran parte della batteria e gli edifici tutt’intorno. Allo scoppio i piemontesi intensificarono il loro fuoco, proprio in quella direzione, senza pietà e rendendo difficoltosi i soccorsi a chi era rimasto sotto le macerie. Dalle batterie piemontesi si alzarono urla di gioia, mentre i napoletani intensificarono il loro fuoco con rabbia. I crolli isolarono la batteria Cittadella, distruggendo il camminamento che la collegava alla « Denti di sega Sant’Antonio » ridotta a un cumulo di macerie, che facevano da tomba a decine di morti. Solo quando si fece notte, cominciarono le operazioni di soccorso, mentre le artiglierie sarde non avevano cessato di sparare. Sotto calcinacci, polvere e pietre, si udivano lamenti, pianti, invocazioni di aiuto alle mamme e alla Madonna. Sepolti c’erano non meno di 400 soldati, mentre nel crollo delle case vicine erano rimasti sotto le macerie almeno un centinaio di civili. Donne e bambini insanguinati correvano, urlando, in preda al terrore. Schizzi di sangue erano sparsi ovunque. A infierire sulla sciagura, si avvicinarono le navi sarde, per concentrare il tiro sempre in direzione della batteria distrutta. Ma furono allontanate dai cannoni napoletani. Terribile fu il bilancio alla fine degli scavi: 216 morti, tra cui 4 ufficiali; 84 feriti, tra cui 2 ufficiali. Un centinaio, tra morti e feriti, furono i civili vittime del crollo delle loro case distrutte.

Una testimonianza oculare di quel fatidico giorno:
Le casematte cadute, e sotto queste schiacciate parecchie compagnie di soldati, e da quel mucchio di ruine, anzi sepolcri, uscivano pianti, lamenti, strida pietose e disperate….Sotto quelle casematte ruinate si trovavano più di quattrocento soldati sepolti, la maggior parte vivi, e sotto le case cadute più di cento innocui ed innocenti cittadini, donne e fanciulli.
I Principi reali, il Re e la Regina accorsero immeditamente sul luogo del disastro, dando essi i primi l’esempio del coraggio e dell’abnegazione.

5 Febbraio - L’esplosione di 7000 Kg. di polvere e 40.000 cariche di fucile provocò una breccia di 40 m. x 6 m. di larghezza con danni enormi anche alla città; vi morirono il generale Traversa, il ten.col de Sangro, i tenenti Guarriello e Troiano, 212 soldati e 100 civili.
Cadevano ormai su Gaeta oltre 6 o 7 granate al minuto, e dovunque cadessero, anche in città, era pur sempre morte e distruzione. Le navi di Persano infine si avvicinarono al fronte a mare ma ne furono respinti dal tiro preciso delle batterie del porto. Il tiro piemontese, contrastato duramente e tenacemente, continuò e si concentrò sulla breccia dove i napoletani lavoravano per chiudere il varco e disseppellire i morti e moribondi; altra bomba scoppiò alle 7 a.m. del 6 febbraio in un deposito granate al Bastione S. Giacomo.
Ormai sulle batterie non si contavano i morti ed i feriti, eppure era considerato un alto onore e favore essere chiamato a servire i pezzi arroventati, fra i parapetti infranti, in rimpiazzo dei caduti.

L’8 febbraio 1861, al tenente colonnello Giovanni Delli Franci, capo di stato maggiore dell’artiglieria della piazza fu dato l’incarico di recarsi a Castellone per trattare il trasporto dei feriti e, nel contempo, di sondare le condizioni di capitolazione. Quell’immane tragedia volgeva, ormai, al termine, trascinando con sé le sorti delle popolazioni duosiciliane e di tutte le future generazioni.
Francesco II si arrendeva alla supremazia militare, alla violenta sopraffazione delle armi.


Il fuoco riprese il 9, i piemontesi tirarono 1700 colpi, i difensori risposero con 1300; il 10 il bombardamento divenne massiccio, cadevano sulle difese – duramente provate – quasi 10 colpi al minuto.(…)
Il giorno 11 nuove batterie assedianti si aggiunsero a quelle in funzione ed il fuoco si intensificò; ormai le batterie della difesa erano smascherate, i parapetti infranti, i camminamenti impraticabili, solo la metà dei pezzi poteva rispondere al fuoco; e rispose con 1469 colpi. Si ebbero altri 9 morti e 7 feriti fra i difensori.
La notte dell’11 la dolorosa, ma ormai improcastinabile, amara decisione di capitolare. (…). Con le trattative in corso il Cialdini continuò, anzi rafforzò il bombardamento; la sua non era più guerra ma brutale, cinico assassinio e lo giustificò con una menzogna accusando il Ritucci di aver sfruttato l’ultima tregua per rafforzare le difese.
Il Ritucci diede le dimissioni per non compromettere le trattative con il sanguinario Cialdini che pur aveva offeso il suo onore di soldato.
Il 12 continuò il duello ormai impari; ai 3588 colpi degli attaccanti, i difensori, che persero 15 morti e 41 feriti, risposero con 1393 proiettili; le rovine si moltiplicavano e la fortezza era avvolta permanentemente nel fumo acre delle esplosioni e degli incendi.
Alfine il 13 febbraio – ultimo giorno della difesa, giorno delle Ceneri – il fuoco riprese all’alba; i piemontesi avevano portato avanti la batteria Atratina piazzandola a soli 850 m. dalla batteria Philipstadt, che volevano ridurre al silenzio così come la Cittadella inquadrata dalla batteria di Casa Albano situata a soli 1100 m. di distanza.
Il fuoco ravvicinato provocò, sulle prime, gravi danni alla piazza; ma adesso i cannoni sardi erano entro la portata delle artiglierie della difesa; in breve i cannonieri napoletani inquadrarono e centrarono le due batterie piemontesi smontandole e riducendole al silenzio.
I cannonieri della piazza caricavano, puntavano, tiravano ormai allo scoperto, bersaglio finanche della fucileria degli avamposti nemici, avevano gravissime difficoltà nel trasporto delle munizioni mentre un proiettile ogni 5 secondi cadeva sulle batterie ormai semidistrutte del fronte a terra.
Infine sull’ore tre vespertine un proiettile penetrò nella casamatta dell’Opera Transilvania ed esplose nel magazzino delle polveri; saltarono in aria 18.000 Kg. di polveri e centinaia di proiettili che squassarono il bastione mandando le macerie in un grande fungo di polvere, fumo e fiamme a più di cento metri d’altezza; rimasero sepolti 39 artiglieri.
Grandi e barbare grida di giubilo si levarono dalle posizioni nemiche che concentrarono il tiro su Transilvania, mentre i soldati napoletani cercavano di salvare i compagni feriti o sepolti dalle macerie.
Scrisse un testimone oculare, il francese Garnier: Appena la metà delle batterie napoletane sostengono il fuoco; l’eroismo è inutile, le altre batterie sono annullate. Ognuno però compie il proprio dovere. Combattono soltanto per morire. E muoiono semplicemente, oscuramente; i nomi delle vittime resteranno quasi tutti sconosciuti, ma la loro coscienza è paga.Finalmente alle 6 e mezzo p.m., firmata la convenzione di capitolazione, i piemontesi e poi i napoletani cessarono il fuoco; l’ultimo colpo della piazza fu esploso dal cadetto della Nunziatella Rossi, che con quasi tutti gli altri allievi del collegio militare aveva seguito, nel settembre, il re al Volturno.  

La conta successiva delle vittime dell’ultima esplosione fu tremenda: per lo scoppio della Transilvania erano morti 2 ufficiali e 51 soldati. Rimasero feriti altri 2 ufficiali e 25 soldati. di quei 27 feriti – lo si sarebbe scoperto qualche mese dopo – solo in 4 sopravvissero. Rimasero uccisi anche 4 civili e l’intera famiglia di una guardia di Artiglieria. Erano morti gli alfieri Giovanni Pannuti e il giovanissimo Carlo Giordano, che era stato tra gli allievi della Nunziatella che avevano deciso di abbandonare la scuola per correre a Gaeta a combattere con il re. Giordano, messinese e orfano del padre, avrebbe compiuto 18 anni due settimane dopo lo scoppio della Transilvania. I suoi resti non furono mai trovati. Furono gli ultimi morti prima della resa. La capitolazione era composta di 23 articoli  e riconosceva gli « onori di guerra » a tutta la guarnigione della Piazza, ma anche la loro prigionia fino alla resa della cittadella di Messina e della fortezza di Civitella del Tronto.  

E’ veramente triste, sconcertante, deplorevole, criminale, da biasimare, da condannare.
Bombardare durante le trattative di resa, che senso aveva? Perché? I piemontesi erano invasori, dopotutto, e lo sapevano e sapevano anche che, dall’altra parte, c’erano fratelli italiani, nemici in quel momento, certo, ma solo perché erano stati aggrediti e proprio da loro.
E’ possibile ipotizzare che quel bombardamento, durante le trattative di resa, che causò tanti morti e feriti, possa essere considerato un crimine, di guerra s’intende? E allora è possibile ipotizzare che il generale piemontese Enrico Cialdini dovrebbe essere condannato per quei crimini, anche oggi, a distanza di tanti anni, visto che i crimini di guerra sono imprescrittibili? E allora perché il suo nome è ancora sul frontespizio di alcuni edifici pubblici adibiti a caserme dell’Esercito italiano?
Nessun commento per le grida di giubilo dei piemontesi per il felice e luttuoso esito di quel bombardamento. Una sola considerazione: da che parte stava la civiltà?
Lo stesso giorno, il 13 febbraio 1861 furono firmati, quindi, i patti di resa. Gaeta cadeva, restava ancora la Cittadella di Messina e la fortezza di Civitella del Tronto, ma era stata Gaeta il simbolo della resistenza duosiciliana perché lì c’era il Re!
Oggi, dopo quasi 150 anni, non si può festeggiare l’unità italiana senza rendere un doveroso omaggio ai duosiciliani che difesero, fino all’estremo sacrificio, la loro Patria, la loro bandiera. Non si può parlare di unità vera senza una riconciliazione con quella parte d’Italia, quella duosiciliana che a sul Volturno prima, a Gaeta dopo, ed infine durante più di dieci lunghi anni si opposero, armi alla mano, alla invasione ed alla conquista piemontese.
Riconciliazione che può avvenire soltanto con un solenne riconoscimento di quella resistenza, inaugurando un monumento che ricordi le vittime dell’una e dell’altra parte, accomunate, una volta per sempre, nell’eterno riposo. Cancellando, inoltre, dalle vie, dalle piazze, dagli edifici pubblici i nomi di coloro che calpestarono i più elementari diritti delle genti. Rendendo accessibili gli archivi militari. Diffondendo, con tutti i moderni mezzi di informazione, la vera storia che portò all’unità gli Antichi Stati italiani, senza timori, senza ipocrisie. Restituendo ai territori duosiciliani le immense risorse sottratte all’unità e dopo.
Solo così si potranno evitare quelle spinte secessionistiche, oggi da parte dei duosiciliani, che potrebbero mettere in discussione, seriamente, l’unità  comunque avvenuta.





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